LE RESPONSABILITA' NELLA GUERRA DI ETIOPIA. LA POSIZIONE INGLESE A DIFESA DEI PROPRI INTERESSI
da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO 1940. Cap. VIII. Guido Mussolini e Filippo Giannini
 
 
    Il 1935 fu l’anno dei grandi avvenimenti che avrebbero condizionato la futura politica internazionale.
    Scrive Amedeo Tosti, nel testo già citato, a pag.26: "Con il conflitto italo-etiopico e il conseguente urto italo-britannico si può considerare aperta la crisi che doveva condurre alla seconda guerra mondiale. I fatti sono noti e non è il caso qui di rievocarli. Il Governo fascista aveva da tempo mire espansionistiche in Etiopia. Sul finire del 1934, in seguito ad incidenti di frontiera nella regione Somalia-Ogaden, abilmente provocati da Roma (?) e, comunque, esagerati dal Governo fascista, i rapporti fra l’Italia e l’Etiopia entrarono in una fase di acuta tensione. Della controversia il Governo etiopico volle che fosse investita la Società delle Nazioni e la richiesta trovò un valido sostenitore nel Governo britannico, il quale riteneva opportuno combattere, fin dall’inizio, le chiare aspirazioni imperialistiche di un regime autoritario quale quello fascista che poteva seriamente compromettere la pace generale, tanto più che l’Inghilterra si trovava, in quel momento, di fronte ad un grande movimento di opinione pubblica, in seguito agli atteggiamenti dell’altro Governo autoritario ed antidemocratico: il nazionalsocialismo tedesco".
    È bene, intanto, sottolineare che il libro di Amedeo Tosti fu scritto negli anni immediatamente seguenti il secondo dopoguerra e, quindi risente del clima di penalizzare la parte perdente. E allora, come si svolsero realmente i fatti?
    Premessa: la prima forma storica dell’impero etiopico fu il Regno di Axum (dal nome della sua capitale) che si trovava nella provincia del Tigrè a nord dell’attuale Etiopia e, secondo una vecchia leggenda, la dinastia regale di Axum discenderebbe dalla regina di Saba. 
    Sino agli inizi dell’attuale secolo, l’Abissinia, allora dai confini molto ristretti, si accrebbe con una politica di conquiste intraprese dal Negus Menelik e proseguita da Selassiè, sottomettendo e annettendo all’Abissinia i territori dei Galla, Sidano, Arusi, i regni negri di Kaffa e Wolamo, lo Yambo, il Barau, il sultanato di Tiern e, addirittura, nel 1935 il sultanato di Jimma. È una realtà che queste conquiste altro non erano che spedizioni per razzie di schiavi.
    Quel che scrive Tosti (e, come detto, condiviso da altri): "Il Governo fascista aveva da tempo mire espansionistiche in Etiopia", non è corrispondente alla realtà o, almeno, è un’affermazione che va rettificata nel tempo. Infatti, proprio nel 1923 e proprio il Governo fascista, malgrado la diffidenza inglese, s’era fatto principale sostenitore dell’ammissione dell’Etiopia nella Società delle Nazioni, E ancora, nel 1928 era stato firmato un trattato di amicizia e cooperazione italo-etiopico.
    Furono, invece, proprio i Governi pre-fascisti ad avere mire sull’impero etiopico. Analizziamo, pur se sinteticamente, i fatti: 1882, inizio della politica coloniale. Impianto delle colonie di Assab. 1885, occupazione di Massaua (Mussolini aveva due anni). 
    1887, fu inviato sconsideratamente in quelle terre un reparto composto da appena cinquecento uomini al comando del tenentecolonnello Carlo De Cristoforis, reparto che fu massacrato da truppe abissine guidate dal Ras Alula. 1888, spedizione di 20 mila uomini al comando del generale San Marzano contro l’Abissinia. Il sultanato di Obbia sulla costa dei Somali diventa protettorato italiano. 
    1889, Trattato di Uccialli: protettorato italiano sull’Etiopia. 
    Estensione del protettorato sulla costa dei Somali. 1890, i possedimenti italiani sulla costa africana del mar Rosso vengono raggruppati in un’unica colonia che prende il nome di Eritrea. 1895, guerra all’Etiopia. 1896, il Governo Crispi fu il responsabile, per beghe di partito fra liberali e l’opposizione socialista, del mancato invio dei rinforzi alla spedizione italiana comandata dal generale Baratieri che, proprio per le inadeguate forze a sua disposizione, subì una disastrosa sconfitta ad opera del Negus Menelik ad Adua. Erano eventi che avevano marcato in profondità la coscienza di almeno un paio di generazioni di italiani. L’umiliazione di quelle sconfitte era sentita, come sostengono alcuni commentatori: "al di là di quanto imposto dalla sua entità sia sul piano militare che politico". Ma gli appetiti coloniali dei Governi pre-fascisti si svilupparono anche verso il Nord Africa. Fu infatti il Governo Giolitti a volere l’impresa di Libia che persino Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia, scritta polemicamente durante il fascismo, la esaltò come iniziativa di sensibilità politica. E ancora: 1908, tutti i possedimenti italiani sull’Oceano Indiano vennero conglomerati sotto l’ unico nome di Colonia della Somalia Italiana. 1911, ultimatum alla Turchia e inizio della guerra italo-turca. Occupazione di Tripoli. La guerra venne estesa dalla flotta, oltre che in Tripolitania, anche nel Mar Egeo e nel Mar Rosso. Occupazione delle isole di Stampalia, di Rodi e di tutto il Dodecanneso. 1912, la Camera approvò con 431 voti su 470 e al Senato all’unanimità la sovranità italiana sulla Libia. Pace di Losanna tra Italia e Turchia. Istituzione del Ministero delle Colonie. Né va dimenticato che la riappacificazione della Libia, avvenuta nel primo dopoguerra, fu condotta, con mano di ferro, dal liberaldemocratico Giovanni Amendola, allora Ministro delle Colonie.
    In questo contesto, va ricordata l’Albania. Infatti, per ordine del Governo Nitti vennero inviati in quel Paese notevoli contingenti di truppe italiane. A gennaio 1920 i delegati albanesi si riunirono a Lushnje e costituirono un Governo provvisorio a Tirana, chiedendo la completa indipendenza dell’Albania e, di conseguenza, il ritiro dei 70 mila soldati italiani, comandati dal generale Settimio Piacentini, che occupavano il loro Paese.Il 3 gennaio 1920, il Governo provvisorio albanese presentò un ultimatum al generale Piacentini, ultimatum che venne respinto. A seguito di ciò, il 5, il 6 e l’11 giugno gli albanesi attaccarono Valona. Le truppe italiane respinsero l’attacco e nuovi rinforzi vennero inviati in Albania.
    Se quindi, ci fossero colpe da addebitare al Governo Mussolini, queste sono di essere riuscito lì dove i Governi pre-fascisti delittuosamente fallirono.
    Come si giunse al conflitto italo-etiopico?
    Dopo i disastri sopra accennnati, sull’Etiopia si erano concentrati gli interessi, oltre che commerciali anche strategici, della Gran Bretagna e della Francia. A testimonianza della crescente attenzione, su quella zona africana, delle potenze europee, è l’attestato dell’accordo, siglato nel 1906 il quale fissava le rispettive zone d’influenza in Etiopia fra quelle due potenze e l’Italia. 
    I nostri rapporti con quel Paese africano si andarono deteriorando nel 1930.
    Guariglia,(6) in una memoria del 1932 scrisse "Il problema del nostro rapporto di Potenza con l’Etiopia e della nostra penetrazione pacifica e militare in essa, s’impose, ripeto, fin dal momento del nostro sbarco ad Assab". 
    La tensione nei rapporti italo-etiopici si aggravarono alla fine del 1934, quando un contingente abissino si accampò davanti al fortino di Ual-Ual difeso dai Dubat, soldati somali fedeli all’Italia, al comando del capitano Roberto Cimmaruta.
    Ual-Ual era una località posta al confine, sin da allora incerto, fra Somalia ed Etiopia, ma mai rivendicato dal Governo Abissino. 
    Il 5 dicembre di quell’anno, dopo che i Dubat rifiutarono la richiesta abissina di sgombero, questi scatenarono l’assalto e lo scontro si concluse all’alba del giorno seguente con la vittoria italiana, ma le nostre truppe coloniali lasciarono sul terreno 120 morti.
    Bruno Barrella su Il Giornale d’Italia del 18 luglio 1993, rammentando i fatti di Ual-Ual, scrive: "È l’ultimo di una catena di episodi di sangue che avvenivano lungo uno dei confini più labili dell’epoca.
    Mussolini da tempo aveva deciso di completare la conquista del Corno d’Africa, ma la difficoltà maggiore era costituita proprio dall’appartenenza dell’Etiopa alla Società delle Nazioni come Membro a pieno titolo e dalle garanzie che il Negus Hailè Selassiè aveva da tempo ricercato, e trovate presso gli inglesi, di cui era un vassallo fidatissimo. Dieci giorni dopo Ual-Ual, il Negus, nonostante la sua piena responsabilità nella strage, chiede alla Società delle Nazioni l’avvio della procedura necessaria per un arbitrato internazionale per dirimere i contrasti con Roma. Mussolini invece pretende le scuse, la punizione dei responsabili e il riconoscimento della sovranità italiana sulla regione dove sono avvenuti gli incidenti. Ogni composizione attraverso gli organismi internazionali, fa sapere, non è desiderata né accettata. Ed a Pietro Badoglio, allora Capo di Stato Maggiore Generale, vengono assegnati i piani della guerra.
    Per risolvere pacificamente il dissidio creatosi a seguito degli incidenti di Ual-Ual, venne istituita una commissione arbitrale italo-etiopica, presieduta dallo specialista greco di diritto internazionale Nicolaos Politis. La commissione il 3 settembre 1935 emetteva la sentenza attribuendo le cause degli scontri agli atteggiamenti ostili di alcune autorità locali abissine, escludendo, di conseguenza, ogni responsabilità italiana.
    Una testimonianza, forse unica sulle colpe abissine per gli "incidenti" ai pozzi di Ual-Ual, ci viene fornita da un lettore de Il Giornale d’Italia, che in data 20/08/1996, quale persona presente ai fatti, scrive: "Il sottoscritto in compagnia di un maggiore del Regio Esercito nel territorio di Ual-Ual, vide i 14.000 armati etiopi che il Negus inviò contro la Somalia italiana, lungo il fiume Uebi Scebeli (3000 da una riva del fiume ed 11.000 dall’altra riva) e che solamente dietro intervento dell’aeronautica italiana, in particolare del velivolo comandato dal M.llo pilota Perego si riuscì a far indietreggiare il predetto contingente. Purtroppo diversi militari etiopi, disertori o disgregandosi (così nel testo ndr) rimasero lungo il confine che imbattendosi con i Dubat italiani, originarono l’intervento Italo-etiopico".
    Mussolini cercava l’assicurazione che, in caso di conflitto, Francia e Inghilterra non sarebbero state ostili. Per quanto riguarda la Francia, nell’incontro di Roma del 4 gennaio 1935 con il Primo Ministro francese Laval, questi, in cambio di una politica più morbida dell’Italia nei Balcani e un freno nelle rivendicazioni dei diritti italiani in Tunisia, assicurò il benestare francese all’iniziativa italiana in Etiopia.
    Questi accordi non risultano dai testi ma si svelano dallo scambio segreto di lettere tra Laval e Mussolini dove risulta, secondo quanto scrive Renzo De Felice in Mussolini il duce, che la Francia "lasciava mano libera" all’Italia in Europa. Il testo della lettera di Laval era volutamente ambiguo e dichiarava che l’interesse francese sarebbe stato solo di natura economica. In ogni caso, con la Francia, che avrebbe preferito avere l’Italia al suo fianco contro Hitler piuttosto che avversaria, l’accordo fu raggiunto.
    E l’Inghilterra?
    Scrivono molti storici, piuttosto frettolosamente, e citiamo ad esempio Max Gallo in Vita di Mussolini, pag. 199: "(Mussolini ndr) respinge un Piano Eden di compromesso, arringa centomila soldati (...)".
    Ma cosa veniva ad offrire Eden a Roma il 23 giugno 1935?
    A mezzo del suo Ministro degli Esteri Antony Eden, il Governo Baldwin presentò una proposta di compromesso che si articolava in questo modo: l’Etiopia avrebbe ceduto all’Italia l’Ogaden ricevendo in cambio dall’Inghilterra il porto di Zeila. Ma questo avrebbe accresciuto il prestigio dell’Etiopia a danno dell’Italia che, con l’Ogaden, avrebbe ricevuto kilometri quadrati di sterile deserto. I giornali di allora scrissero che era una proposta indecente.
    Guariglia nei suoi Ricordi a pag. 245, attesta: "Mussolini seppe conservare tutta la sua calma di fronte a questa manifestazione inglese dove non si poteva dire se predominasse l’ottusità, l’improntitudine o il disprezzo assoluto non tanto verso la politica italiana, quanto verso il popolo italiano, fascista o non fascista che fosse, della cui intelligenza non si faceva, da parte inglese, il benché minimo conto".
    Alessandro Lessona, allora Ministro delle Colonie del Governo Mussolini, nel 1937, così testimoniò: "Io ho il privilegio d’essere l’unico collaboratore di Mussolini a conoscenza del suo segreto pensiero e devo, per la verità, dichiarare solennemente ch’egli si augurò sempre di evitare il conflitto armato con l’Etiopia. Anche quando più decisi erano i preparativi, continuò a coltivare la speranza che "ritenendolo deciso alla guerra" si potesse giungere ad una soluzione pacifica. Cadono dunque le illazioni e le responsabilità che si sono volute addossare sulle spalle di Mussolini per aver voluto provocare la guerra etiopica ed aver così acceso la fiammella della seconda guerra mondiale. Se responsabilità vi furono, sono da attribuire alla testardaggine, all’animosità con le quali Eden condusse le trattative ginevrine".
    Ma cos’era in definitiva che spingeva la diplomazia inglese ad una simile linea? Riteniamo, in primo luogo, una diversa politica inglese nei confronti del pericolo tedesco; infatti pochi giorni prima la Gran Bretagna aveva stipulato con Hitler quell’indecoroso accordo navale del quale sopra abbiamo accennato. Secondo: escluso che alcun inglese si preoccupasse davvero dell’indipendenza o meno dell’Etiopia, altri e più sottili timori furono a smuovere il Governo britannico e cioè, una volta che l’Etiopia fosse stata popolata da milioni di coloni italiani e dotata di un esercito formato da nazionali ed indigeni, essendo quel Paese posto in una posizione strategica vitale nel seno dell’Africa, sarebbe stato un serio pericolo per i possedimenti britannici in quelle aree.
    Altro motivo probabilmente valido e di cui ne condividiamo il contenuto, è quello esposto da Luigi Rossi in: Uomini che ho conosciuto: Mussolini, pag. 335: "Fu proprio la visione anticolonialista ed antiimperalista di Mussolini (che rompeva gli schemi classici degli interessi afroasiatici di Londra) ad impressionare sfavorevolmente gli inglesi. Mussolini, a proposito del problema delle colonie (in rapporto all’ipotesi di un reintegro dei tedeschi in Africa), aveva sostenuto che per superare i vecchi schemi (visti i fermenti suscitati dopo la guerra soprattutto da Gandhi), occorreva un salto di qualità. Era necessaria, quindi, un’integrazione euro-afro-asiatica per valorizzare globalmente le tecnologie industriali più avanzate e le risorse di materie prime dei Paesi inseriti nel circuito coloniale, allargando i benefici comuni a tutte le popolazioni indigene. Era allora una concezione ardita (...)".
    Sempre nel citato Volume, Luigi Rossi chiarisce le motivazioni dell’atteggiamento di Antony Eden, nei confronti dell’Italia, in forma piuttosto colorita. L’Autore riferisce di un colloquio avuto con un giornalista inglese dell’Agenzia Reuter, Cecil Sprigge: "Immagina" disse Sprigge a Rossi "che l’Impero britannico sia una grande automobile. L’abitacolo è rappresentato dal Regno Unito, l’albero di trasmissione si snoda attraverso il Mediterraneo per arrivare fino all’estremo Oriente, ma il motore è rappresentato dai possedimenti imperiali. Ti spieghi così la ragione per cui Eden è stato sempre così pregiudizialmente contrario a qualunque politica che potesse rafforzare l’Italia nel Mediterraneo. E siccome questa politica era spinta avanti con forza da Mussolini, ti spieghi perché Eden fu sempre un irriducibile nemico di Mussolini stesso. Diverso invece il rapporto con Hitler, nel cuore dell’Europa, stretto tra la Polonia e la Francia, premuto dalla Cecoslovacchia e guardato a vista dai sovietici". 
    "La storia recente" obiettò Luigi Rossi (eravamo allora nel 1956 e l’Impero inglese era già in briciole) "ha dimostrato che Eden era miope. Anzi quasi cieco".
    "Sprigge sorrise e mostrò di apprezzare la battuta. Infatti Sprigge non era malato di edinite" 
    Gli avvenimenti precipitavano: il 20 agosto Mussolini inviò una lettera a De Bono, posto a capo del corpo di spedizione italiano in quel settore: "Io credo che dopo il 10 settembre tu debba senz’altro aspettare la mia parola d’ordine". 
    Il 20 settembre la Home Fleet entrava nel Mediterraneo con lo scopo evidente di dissuadere l’Italia da ogni azione in Etiopia; si trattava di una forza mai vista in tempo di pace: 6 navi da battaglia, diciassette incrociatori di vario tonnellaggio, il tutto scortato da 53 caccia, undici sommergibili, più una gran quantità di unità di appoggio.
    "Mussolini" scrive D’Aroma "viveva in quei giorni un’alternativa grave di pensieri e di decisioni opposte. Alle volte gli appariva che l’Inghilterra avrebbe alla fine voluto discutere e non tagliare i ponti; in certe giornate, viceversa, gli pareva certo che l’Inghilterra, una volta stremata l’Italia con le sanzioni, subito dopo avrebbe attaccato il nostro Paese".
    Su queste considerazioni, il Duce preparò una relazione e la presentò al Re. Così Vittorio Emanuele III rispose al suo Primo Ministro: "Sapevo quasi tutto quello che lei m’ha schiettamente riferito. So pure dell’opposizione, cauta ma viva, che si è diffusa tra i suoi principali collaboratori. M’hanno informato e so i nomi di molti generali e ammiragli che paventano e discutono troppo. Ebbene: adesso proprio che gli inglesi sono nel nostro mare e credono di averci spaventati, adesso il suo vecchio Re le dice: - Duce, vada avanti. Ci sono io alle sue spalle. Avanti, le dico!".
    Ricevuto l’ordine di Mussolini, il 3 ottebre le truppe di De Bono varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine fra l’Eritrea e l’Etiopia.
    Il giorno prima, alle 18,30, dal balcone di Palazzo Venezia, oltre all’annuncio dell’inizio delle ostilità, Mussolini frà l’altro disse: "Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un pò di posto al sole (...) noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo".
    Il 7 ottobre l’Italia fu dichiarata Paese aggressore e il 10 ottobre 1935, in virtù dell’art. 16 dello Statuto della Società delle Nazioni, il Ministro britannico riuscì a mettere insieme una maggioranza di 51 Stati su 54 che votarono a favore dell’applicazione di sanzioni economiche contro l’Italia. Era la prima volta, dalla costituzione della Società delle Nazioni, che tale procedura veniva applicata; iniziava quella fase che avrebbe fatalmente portato l’Italia a schierarsi dall’altra parte (come vedremo più avanti) e questo per la difesa di un Paese che, come disse poi il Segretario degli Affari Esteri inglese, Lord Simon alla Camera dei Comuni il 24 giugno 1936: "Io non ero disposto a veder andare una sola nave in una battaglia navale anche vittoriosa per la causa dell’indipendenza abissina".
    E allora, perché le sanzioni?
    Questa domanda assume un aspetto ancor più inquietante leggendo quanto disse un altro membro della Camera, Lord Mottiston, rispondendo alla domanda perché non si opponeva all’impresa italiana in Abissinia: "Volevo distruggere la ridicola aberrazione per cui sembrava una cosa nobile simpatizzare per le bestie feroci. La legge abissina era di mutilare i vivi e poi seppellirli nella sabbia affinché morissero. C’era allora un milione di questa genia; io speravo che coloro i quali volevano indire manifestazioni contro gli italiani si ricordassero che i prodi figli d’Italia affrontavano proprio allora quegli sciagurati (...). Avevo telegrafato al generale De Bono sul problema della schiavitù in Abissinia, rispose che le truppe italiane erano state accolte col più commovente entusiasmo non solo da quelli che erano stati ridotti in schiavitù ma anche dalla popolazione media (...). Rivelai tutto ciò alla Camera dei Lords il 23 ottobre 1935. Io dissi che era un’infamia mandare armi o cooperare all’invio di armi ai brutali, crudeli abissini e negarne agli altri che combattevano con onore (...). Il comandante italiano in Abissinia aveva telegrafato a Mussolini: "Come sapete ho viveri e vestiario sufficiente per le truppe per i prossimi mesi, ma non vedo come potrei nutrire anche 120 mila uomini, donne e bambini che vengono a porsi sotto la nostra protezione". Mussolini rispose: "Dobbiamo assumerci tale rischio. Continuate a nutrire la popolazione indigena come prima" (...)".
    Iniziava così l’avventura etiopica che, come disse Churchill a pag. 192: "Il ricordo della disfatta umiliante che l’Italia aveva subito quarant’anni prima ad Adua, e della vergogna quando il suo esercito era stato non solo distrutto, ma i prigionieri erano stati oscenamente seviziati, si annidava esacerbato nella mente di tutti gli italiani".
    In ogni caso, mai il consenso del popolo per Mussolini fu più alto; per rispondere alle inique sanzioni, fu indetta la Giornata della Fede, tendente a raccogliere oro per far fronte alle difficoltà dovute al provvedimento della Società delle Nazioni. Solo a Roma 250 mila spose donarono le loro fedi, 180 mila a Milano. Tutta l’Italia fu percorsa da un’ondata di entusiasmo come mai si verficò nei secoli passati. Si può dire che l’Italia aveva, finalmente, il suo popolo omogeneo, da Nord a Sud.
    Gli stessi antifascisti si allinearono alla politica mussoliniana: Benedetto Croce donò la sua quantità d’oro e la sua medaglia di senatore, seguito dal liberale ed ex direttore del Corriere della Sera Albertini; nello stesso modo agirono Vittorio Emanuele Orlando e il socialista aventiniano Arturo Labriola, rientrato in Italia dal suo esilio a Bruxelles, dopo aver comunicato la sua solidarietà all’Italia fascista.
    Gli stessi comunisti lanciarono il loro appello ai fratelli in Camicia Nera.
    La dichiarata tradizionale amicizia italo-britannica era in frantumi. Il Governo inglese agiva come se la pace europea si difendesse nel Corno d’Africa e non, invece, per quanto stava accadendo in Europa.
    Molto acutamente Trevelyan nella sua Storia d’Inghilterra, a pag. 834: "E l’Italia, che per la sua posizione geografica poteva impedire i nostri contatti con l’Austria e coi Paesi balcanici, fu gettata in braccio alla Germania dalle - sanzioni economiche - decretate e si e no applicate per l’aggressione di Mussolini contro l’Etiopia (1935-1936). In questo disgraziato episodio, l’Inghilterra non ebbe la risolutezza né di rifiutare il suo intervento né di intevenire sul serio. Si sacrificò l’Europa all’Abissinia, senza salvare l’Abissinia".
    "Fu gettata nelle braccia della Germania (...)" Questa frase richiama singolarmente quella di Churchill, citata all’inizio del presente lavoro: "Adesso che la politica inglese aveva forzato Mussolini (...)". Tutto ciò non era che la logica conseguenza dei fallimenti di tutte le iniziative per il disarmo e le soluzioni negoziate, fallimenti dovuti agli egoismi e alla cecità che generarono dal famigerato Trattato di Versailles. 
    Alle sanzioni non aderirono Stati Uniti, Giappone e Germania. Fu quest’ultimo Paese i cui diplomatici, approfittando della singolare situazione politica europea, furono abili nel cogliere il momento favorevole e sfruttarlo a proprio vantaggio.
    Nel tentativo di esporre le ragioni del Governo italiano, Guglielmo Marconi si recò a Londra, ma non solo cozzò contro l’intransingenza britannica, ma la Corona inglese giunse a tal punto d’arroganza da offrire al nostro grande scienziato un titolo nobiliare purché si astenesse dal dimostrare la sua adesione all’impresa etiopica. È superfluo aggiungere che Guglielmo Marconi rifiutò sdegnato l’oltraggiosa offerta.
    Chi si avvantaggiò di questa situazione fu Hitler che vedeva prendere sempre più forma il suo disegno tracciato nel Mein Kampf: un’alleanza politico-militare tra Italia e Germania. A tal scopo mobilitò abilmente la stampa tedesca che, sull’onda emotiva delle sanzioni, si prodigò in dichiarazioni di simpatia e di amicizia per il nostro Paese e, in particolare, per Mussolini. E Mussolini si trovò a subire il dinamismo hitleriano in quanto i margini di manovra per altra politica si erano paurosamente ristretti, ma anche perché e soprattutto perché l’Italia dipendeva principalmente dalla Germania per le forniture delle materie prime. 
    Peraltro, anche durante il conflitto italo-etiopico, Mussolini non dette mai seguito agli inviti che venivano da oltr’Alpe. Come disse giustamente, a nostro avviso, Renzo De Felice in un’intervista rilasciata in occasione del cinquantenario dell’entrata in guerra dell’Italia: "Mussolini aveva un’atavica paura dei tedeschi". In quest’ottica, riteniamo, va letta la politica estera mussoliniana nella seconda metà degli anni ’30.
    La sera del 5 maggio 1936, di fronte a una folla immensa, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciò la vittoriosa conclusione dell’impresa africana e, fra l’altro, proclamò: "Nell’adunata del 2 ottobre, io promisi solennemente che avrei fatto tutto il possibile onde evitare che un conflitto africano si dilatasse in una guerra europea. Ho mantenuto tale impegno e più che mai sono convinto che turbare la pace in Europa significa far crollare l’Europa". Poche volte una profezia si è trasformata in storia come nel caso appena citato.
    Il 9 maggio dello stesso anno, tra le 22,30 e le 22,45, Mussolini pronunciò un altro discorso: "Il discorso della proclamazione dell’Impero". Quando si affacciò al balcone un urlo immenso si levò dalla folla: "Anche stavolta l’adunata oceanica è impressionante" 
    "(...) L’Italia ha finalmente il suo Impero, Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate dei giovani, gagliarde generazioni italiane. Impero di pace, perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili necessità di vita. Impero di civiltà e umanità per tutte le popolazioni d’Etiopia. Questo è nelle tradizioni di Roma, che dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino".
    Questi principi di civiltà sono confermati da Renzo De Felice ne: Intervista sul fascismo, pag. 52: "Non si tratta di imperialismo di tipo inglese o francese: è un imperialismo, un colonialismo che tende all’emigrazione, che spera cioè che grandi masse di italiani possano trapiantarsi in quelle terre per lavorare, per trovare quelle possibilità che non hanno in patria. Insomma non si parte tanto dall’idea di sfruttare le colonie, quanto soprattutto dalla speranza di potervi trovare terra e lavoro".
    È quello che francesi e inglesi non intendevano tollerare: sarebbe stato un esempio pericoloso per la politica coloniale di quei Paesi che non volevano saperne di cambiare, cioè mantenere il principio che le colonie erano terre da sfruttare.
    Cessata la guerra in Africa, cessò anche a Ginevra: qui il 30 maggio 1936 Hailè Selassiè avanzò una proposta tendente a non far riconoscere la conquista italiana; venne respinta con 28 voti contro 1 e 25 astensioni. Il 4 luglio successivo l’Assemblea, quasi all’unanimità votò per la fine delle sanzioni. Fu un innegabile successo di Mussolini, ma una sconfitta del buon senso.
    Osserva Trevelyan in Storia d’Inghilterra, pag. 834: "Gli storici futuri avranno lo sgradevole compito di ripartire la colpa dei molti errori commessi fra i successivi Governi inglesi e l’opposizione e l’opinione pubblica i cui umori mutevoli sono stati spesso accarezzati dai Governi con troppa docilità".
    Infatti il danno era compiuto: Inghilterra e Francia avevano mostrato la propria ostilità al Governo fascista. Ma altri errori, forse (semmai possibile) ancora più gravi, saranno posti in atto addirittura nelle settimane successive.
    Anche la Chiesa di Roma elogiò l’impresa etiopica: il gesuita Antonio Messineo su Civiltà Cattolica plaudì con due saggi intitolati: L’annessione territoriale nella tradizione cattolica e Necessità economica ed espansione coloniale.
    Fu il Cardinale Ildefonso Schuster a richiamare la volontà divina: "Cooperiamo con Dio in questa missione nazionale e cattolica in bene, in questo momento in cui sui campi d’Etiopia il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza la catena degli schiavi, spiana la strada ai missionari del Vangelo".
    Pochi anni dopo, nel momento del maggior bisogno, tutto sarà nascosto e dimenticato.
    Il clero anglicano prese posizione ma, al contrario della Chiesa cattolica era allarmato dei successi italiani (e aveva fondati motivi per preoccuparsi) perché l’Italia cattolica (che non era più l’Italietta) minacciava di erodere l’impero britannico anche per mezzo della religione. Scrive in merito Franco Monaco a pagina 76 del Quando l’Italia era Italia: "Di qui le prediche contro l’Italia, feroci e calunniose, del primate Arcivescovo di Canterbury e del Vescovo di York. Agli inglesi non si poteva dare torto. In effetti le nostre aspirazioni andavano molto più in là delle loro stesse paure. Un giorno tutta intera la fascia orientale africana, con l’Egitto, il Sudan e giù giù fino all’Uganda e al Kenya, avrebbe potuto vederli finalmente partire per sempre. L’Etiopia non era che il primo passo, il primo di un cammino non solo politico: poiché la Nazione giovane portava nel suo seno il cuore del Cattolicesimo e le due forze si integravano (...)". 
    Certamente i timori britannici erano fondati; si consideri, oltretutto, che il Governo italiano prevedeva di inviare in Etiopia ben 15 milioni di coloni e all’uopo stava predisponendo grandiosi lavori strutturali.
    Per il leone britannico era troppo!
    Anche se l’argomento sarà trattato con maggior rilievo nel volume Uno scudo protettivo - Mussolini, il Fascismo e gli ebrei, è opportuno rilevare in questa sede, che la conquista dell’Etiopia e la successiva proclamazione dell’Impero, furono salutate dalla stampa ebraica e dalla stragrande maggioranza degli ebrei italiani, con esultanza.
    Su Israel del 10 ottobre 1935, in occasione del Kippur, i Rabbini invocarono il favore divino "in quest’ora storica e su chi regge i destini e sui valorosi soldati italiani".
    In ampie zone dell’Etiopia, fra Gondar e il lago Tana, vivevano popolazioni di religione giudaica: i falascià. L’Unione delle Comunità giudaiche, nel 1936, prese contatto con il Ministro delle Colonie, Lessona, allo scopo di assistere e organizzare gli ebrei etiopici. Da parte del Ministro ci fu la massima disponibilità. 
    L’incarico di questa operazione fu assunto dal Rabbino Carlo Alberto Viterbo.
    A fine luglio 1936 C.A. Viterbo partì per l’Africa Orientale e il 22 agosto successivo si incontrò ad Addis Abeba con il Maresciallo Rodolfo Graziani "che gli manifestò la sua comprensione e simpatia per gli israeliti" e lo assicurò che: "le popolazioni falascià, note per il loro spirito laborioso, avrebbero ottenuto la particolare benevola attenzione del Governo".
    Uno dei risultati di questa iniziativa fu che molti ebrei etiopici vennero a studiare, negli anni successivi, in Italia.
    Prima di chiudere l’argomento del conflitto italo-etiopico, non è male riportare quanto in questi giorni (febbraio 1996) alcuni giornali titolano: Il Duce in Etiopia usÒ i gas. Sono scoperte ripetute da Denis Mac Smith e immediatamente ampliate da Angelo Del Boca. Le smentite vengono proprio da coloro che erano sul posto e sono innumerevoli. Ne riportiamo solo due perché racchiudono nei concetti le motivazioni delle altre.
    Il Signor Toni Summanga di Venezia, l’8 maggio 1991 su Il Giornale fra l’altro ricorda: "Francia e Inghilterra deluse del mancato fallimento dell’operazione diffusero subito la voce che gli italiani avevano usato i gas. Io in Africa Orientale ci sono stato. Appena arrivato ad Addis Abeba, mi fu chiesto da un commerciante francese che risiedeva sul posto se avevamo usato i gas. Da Massaua ad Addis Abeba, non ho mai visto né sentito parlare di maschere che pure avremmo dovuto usare se avessimo lanciato i gas. Abbiamo impiegato le armi convenzionali (moschetto, cannone, qualche velivolo e truppe coloniali (...)".
    Per avere un altro giudizio più diretto, l’8 febbraio 1996 abbiamo contattato il generale Angelo Bastiani, presidente del gruppo Medaglie d’Oro del Nastro Azzurro. Oggi ha 82 anni, all’epoca della guerra in Africa Orientale era un sottufficiale al comando di una banda coloniale. Il generale Bastiani ci ha detto: "È una vigliaccata, rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci avrebbero dato almeno le maschere antigas… Alla battaglia conclusiva di Maiceo, al lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus… a proposito del Negus: perché lui che ne avrebbe avuto tutto l’interesse, mai disse che lo combattemmo coi gas?".
    (…)
 
 
da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO 1940. Guido Mussolini e Filippo Giannini
Anno di Edizione: 1998. Greco&Greco editori. (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)

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